• L'oncologo, il malato e la libertà dell'ultima scelta

Bando alle ipocrisie: l’eutanasia o meglio interventi per accorciare la vita in un paziente terminale, in oncologia si è sempre praticata, anche se per quello che conosco soltanto in casi del tutto selezionati e certamente fuori da ogni possibilità di intervento efficace con prospettive di vita di ore, al massimo di giorni, ma non di settimane, di mesi o di anni. Nonostante l’eutanasia sia proibita per esempio in paesi come il Belgio, mentre invece è permessa dalla legge in Olanda, i trattamenti con l’intento di accorciare la vita del paziente sono stati registrati con la stessa frequenza globale del 19% negli studi condotti da Deliens e collaboratori in Belgio (Lancet 2000; 356: 1806-11) e da Van der Maas e collaboratori in Olanda (N Engl J Med 1996; 335: 1699-705). Le differenze consistevano nel fatto che in Belgio un’azione palliativa radicale, sostanzialmente una eutanasia, iniziava più in extremis con uno stimato tempo di riduzione di vita di meno di una settimana nell’80-85% dei casi. La percentuale di eutanasia e di interventi per accorciare la vita senza un’esplicita richiesta del paziente, erano rispettivamente in Belgio dell’11% e del 32%, in confronto del 24% e lo 0,7% in Olanda. In altre parole in Belgio, e la situazione italiana potrebbe essere sovrapponibile, i medici sembrano agire più paternalisticamente, mentre in Olanda i pazienti sembrano esercitare più autonomia. Credo sia impossibile dal punto di vista etico accettare una legge sull’eutanasia, a prescindere dalle convinzioni religiose che pur sono importanti al proposito. Infatti chi potrebbe accettare di porre fine ad un paziente per esempio che ha un tumore del polmone non operabile e casomai con metastasi a distanza con una prospettiva di vita di pochi mesi e che volesse praticare l’eutanasia? E chi praticamente dovrebbe intervenire? E come? Supponiamo che nel frattempo arrivi un farmaco che anche senza guarire il tumore aumenti significativamente la vita del paziente, di chi sarà la responsabilità di aver accorciato sensibilmente la vita di questo paziente? Questa ipotesi non è così impossibile da realizzarsi, basti pensare a quello che è successo alcuni decenni fa ai pazienti con tumore del testicolo che, pur con malattia metastatica ed inguaribile con le medicine del tempo, sono stati guariti da un farmaco, il cisplatino, che in quel momento era appena uscito dagli studi preclinici e che riuscì a guarire pazienti anche impiegato da solo, o comunque di prolungarne significativamente la vita. Ma per ricordare la storia più recente, basterebbe pensare ai pazienti con AIDS prima dell’impiego della terapia triplice antiretrovirale che ha cambiato radicalmente la prospettiva di questi pazienti. Immagino che in Olanda, pazienti con AIDS abbiano messo fine volontariamente alla loro vita qualche tempo prima della disponibilità di questa terapia triplice così efficace. Se questi pazienti avessero atteso soltanto pochi mesi avrebbero potuto ricevere un trattamento così efficace che ancora oggi sarebbero forse vivi, e forse con la malattia nettamente sotto controllo. Diversa ovviamente è la prospettiva del medico che si trova di fronte ad un paziente oncologico che ha poche ore di vita e per il quale non è necessaria alcuna legge sull’eutanasia per capire che il paziente va aiutato a morire meglio, eventualmente sedandolo ed accelerando quindi indirettamente la morte. Questo approccio è a mio parere del tutto accettabile, anche dal punto di vista etico. E’ ovvio che tutto questo discorso prescinde dal controllo del dolore e dal trattamento palliativo del cancro che va ovviamente affrontato al meglio con l’uso dei farmaci principali per il controllo del dolore quali la morfina e con i trattamenti psicologici più appropriati nelle fasi più avanzate di una malattia come il cancro, eventualmente con l’impiego di hospice e dell’assistenza domiciliare. Tra l’altro in questa maniera l’eventuale richiesta di eutanasia da parte dei pazienti dovrebbe significativamente diminuire. In conclusione, l’oncologo deve battersi per la vita lasciando sempre al paziente la speranza, ma deve anche battersi per migliorare la qualità della vita nella fase terminale di una malattia che diventa impossibile da prolungare in maniera significativa con trattamenti specifici contro il cancro.

 

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